Siamo proprio alla «fine della compassione», per citare Alejandro Portes, uno dei massimi esperti di fenomeni migratori. Lui si riferisce però agli Stati Uniti d’America, mentre noi vediamo finire la compassione ai confini d’Europa. Distratte dal coronavirus, assuefatte dalle ripetute notizie degli arrivi di profughi, ma soprattutto fuorviate dalla propaganda sovranista e da un’informazione ansiogena, le opinioni pubbliche europee non appaiono più capaci di umanità nei confronti di chi fugge dall’ultima battaglia del tormentato teatro bellico siriano e di chi dalla Turchia cerca di raggiungere il territorio della Ue. Nella regione di Idlib una popolazione stimata dall’Onu in 950.000 persone, di cui 560.000 minori, ha lasciato le proprie case e cerca scampo varcando il confine con la Turchia.

Respinta con durezza, spesso dopo aver speso il poco che ancora aveva per pagare i passatori. Già diversi bambini sono morti di freddo perché rimasti senza riparo. A sua volta Ankara ha lanciato un sinistro avvertimento ai governi europei, consentendo il passaggio di alcune migliaia di profughi verso la Grecia e la Bulgaria: circa 13.000 secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, una cifra dieci volte superiore secondo il governo turco che ha interesse a drammatizzare la crisi.

Non è stato bello né comodo ritrovarsi nel tempo del coronavirus, anzi del «ceppo italiano del Covid-19». Ma è accaduto. E da qualche giorno noi italiani ci siamo resi conto che ogni muro ha il suo rovescio. Per davvero. E che per ritrovarsi dalla parte del rovescio basta un attimo – e un microscopico, inquietante e ancora indecifrabile inghippo.

Abbiamo cominciato a capire che la logica del muro, e dell’ognun per sé, è quanto di peggio si possa contrabbandare in un mondo in cui nessuno si ammala e si salva sovranamente da solo, dove nessuno nel proprio cantuccio – che si chiami Codogno o Vo’ o con qualche nome esotico – si può chiamare fuori e consolare. Perché è anche lì, anzi è proprio lì, su questa terra dell’uomo dove ogni periferia è ormai centro, che c’è il fuoco e magari s’accende un focolaio.

Perché nessuno può stare alla finestra mentre si articola la sfida dell’umana fragilità. E poco importa, pur in realtà importando moltissimo, che questa eterna sfida riesploda a causa di virus o di ideologie odiose, di guerre o di un’ingiusta economia, di terremoti devastanti o per il clima in artificialmente accelerato cambiamento. Per quanto ci si creda assolti, ha saputo cantare De André, siamo per sempre coinvolti. E sebbene, qui e adesso, si stia parlando di un male sconosciuto, il coinvolgimento – o, se volete, la connessione, la reciproca dipendenza – è un bene che possiamo finalmente aver chiaro e che dobbiamo tener caro sino a tradurlo in fraternità in atto, in solidale con-cittadinanza in Italia e oltre. Unica seria e buona alternativa al muro, alla sua logica di esclusione e al suo inevitabile rovescio.

Nella vicenda del coronavirus che sta mettendo in ginocchio l’Italia è insito un paradossale invito "laico" al ritornare in se stessi, alla conversione del cuore. Molte persone sono consegnate all’isolamento e a una sostanziale solitudine, forse per la prima volta nella vita: dato che non sono molti coloro che, in Quaresima e in altre stagioni, si rifugiano nella meditazione e nel silenzio. Per molti, dunque, si tratta di un’esperienza del tutto insolita. Un poco paradossalmente, l’esigenza di garantire la salute delle persone costringe – grazie a una sorta di dimezzata "quarantena", come è quella di due settimane prescritta dai medici – a riflettere su se stessi e ciò rappresenta una sorprendente novità. Quanti sono, infatti, coloro che "di questi tempi", amano il silenzio, riflettono serenamente sulla loro vita, si pongono interrogativi sul proprio futuro?

Lungi dall’augurarsi, per tutti, una forzata esclusione dal "mondo" e una obbligata chiusura in se stessi; non è questa, infatti, la via da percorrere quando si voglia seriamente riflettere sul proprio futuro. Ma, ciò nonostante, è pur lecito chiedersi se queste preoccupate clausure, questi forzati silenzi, non possano portare a guardare in profondità se stessi, al di là degli stordimenti e delle evasioni della "normale" vita quotidiana. Chi pensa seriamente alla vita, al futuro, al camminare nel mondo (e con le proprie gambe, non sfruttando il supporto altrui)?

Questi giorni in cui l’essere più piccolo dell’Universo – un virus per l’appunto – domina il nostro pianeta in ogni angolo dello spazio e del tempo, offrono lo spunto per considerazioni di diverso genere. Tra il consueto propagarsi, anch’esso virale, delle fake news e la sparizione della fiducia nell’esperto, rimpiazzata dalle immancabili critiche e granitiche certezze che ognuno ha su quello che si sarebbe dovuto fare e non si è fatto e viceversa – che ricordano i discorsi da bar del lunedì mattina, se non fosse che ora al bar non ci va più nessuno – tra tutte ve n’è una che ha un che di nuovo, ancorché di antico.

Ora che il piccolo virus, ignaro o incurante di confini regolati da trattati, demarcati da limiti geografici e persino da muri, sprezzante di bellezze artistiche, realtà produttive, feste e tradizioni, rapporti sociali fa quello che un virus fa per sua natura, girare il mondo intero come il vento, ora che, a furia di invocarlo come obiettivo da parte di improvvida propaganda partitica, siamo finalmente primi in Europa, ci accorgiamo che vacillano certezze che fino a ieri sembravano incrollabili. Un dato di fatto così radicato che neppure ci ha mai sfiorato l’idea che non potesse essere che così: ci siamo noi e ci sono gli altri. L’altro è tutto ciò che non siamo noi. L’altro è chi viene da fuori.

Dovevo partire per l’Iraq per rivedere mia figlia, operatrice umanitaria nella regione del Kurdistan, ma il blocco imposto dal governo iracheno agli arrivi dall'Italia mi ha tristemente trattenuto a casa. Al di là dei miei sentimenti, la vicenda in cui sono stato coinvolto mi pare emblematica delle conseguenze dell’allarme coronavirus.

Anche in questi giorni non manca chi ripropone il nesso virus-migranti, agitando una delle paure più antiche e radicate nei confronti degli stranieri: che importino pandemie incontenibili. Di qui le reiterate richieste di blocchi delle navi che trasportano persone salvate in mare, di quarantena per gli immigrati irregolari che entrano via terra dai confini nord-orientali, e altre parole in libertà.
Dopo i cinesi, sono ora i nuovi arrivati a finire nel mirino: gli stranieri poveri e politicamente deboli, mentre nei confronti dei turisti provenienti da tutto il mondo cresce il rammarico per la pioggia di disdette. Stando a questi improvvisati ma rumorosi esperti di igiene pubblica, dovremmo attuare misure cautelative schizofreniche, severissime soltanto verso chi non arreca benefici all’industria turistica o agli scambi economici.

Come se chi viaggia per diporto o per affari fosse meno portatore di contagio di chi fugge da guerre e regimi oppressivi, malgrado i casi già accertati di turisti ricoverati perché colpiti dal virus.

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