Il Capo se ne sta, dritto e umile, tra Dio e il suo popolo. Non fronteggia l’assemblea degli anziani e la folla dei fedeli, per questa volta. Fronteggia il Signore suo e nostro, il Padre di tutti, il Dio della vita che mille volte già ci ha fatto uscire dalle prigioni della storia, rimettendoci in cammino, perché potessimo celebrare le sue benedizioni e testimoniare la sua misericordia.
Il Capo supplica Dio, per la nostra vita e per le sue promesse, di non abbandonarci. Non siamo stinchi di santi, ma siamo uomini e donne che portano – spesso loro malgrado – i segni della presenza dell’amore di Dio nella storia. Non ne siamo affatto all’altezza: non siamo i migliori che Dio avrebbe potuto trovare, portiamo il tesoro della sua benedizione in vasi di creta, raggiustati più volte, che stanno insieme per miracolo. Però, siamo quelli che Lui si è preso. E abbiamo arrancato per generazioni dietro a Lui: molti hanno perso il passo, molti sono rimasti indietro, molti hanno perso le forze e persino la fiducia. Siamo quello che siamo. Eppure, siamo uomini e donne che tutto vorrebbero, eccetto che essere separati da Lui.

Caro direttore,
ogni giorno mi corico e mi risveglio con questa domanda: avrò fatto la mia parte fino in fondo? Rispetto ai colleghi in trincea negli ospedali, stravolti dal lavoro incessante ed esposti a un rischio elevato, io medico che lavoro sul territorio sto presidiando con efficacia la situazione? A ben vedere la domanda sulla propria identità, in scienza e coscienza, è già dentro la professione medica, ma oggi viene acuita e provocata dalla pandemia che stiamo vivendo.

Circa 1.700 assistiti col Servizio sanitario, oltre a una quota variabile di privati, conoscenti e amici seguiti attraverso l’attività specialistica e di ricovero in una clinica privata. Quasi 2mila persone che mi stanno a cuore, che mi chiedono incessantemente lumi, consigli, rassicurazioni cliniche e al contempo umane. Due cellulari attivi h24, email, visite domiciliari, videoconsulti: benedette le innovazioni tecnologiche, ben venga la telemedicina...

In questi giorni di segregazione, in cui la nostra esistenza è sotto assedio da parte di un nemico invisibile, è importante operare un sano discernimento alla luce della fede. È questo lo spirito che ha animato Papa Francesco nell’invitare, nel corso dell’Angelus domenicale, tutti i leader religiosi cristiani, così come i fedeli, a recitare il Padre Nostro mercoledì 25 marzo alle 12. «Alla pandemia del virus — ha detto — vogliamo rispondere con la universalità della preghiera, della compassione, della tenerezza. Rimaniamo uniti. Facciamo sentire la nostra vicinanza alle persone più sole e più provate». E ha citato i malati, il personale sanitario, le forze dell’ordine, le autorità. Oggi, come in passato, d’altronde, tutti desideriamo ardentemente che la Provvidenza si manifesti in tutta la sua ampiezza, innescando l’agognata debellazione della pandemia.

L’emergenza che stiamo vivendo in queste settimane costringe la nostra società a inediti e repentini mutamenti. Le strade e le piazze piene di gente e luci del nostro quotidiano sono divenute buie e deserte. Il mondo è cambiato nel giro di pochissimi giorni e abbiamo ormai compreso che chiunque non abbia mai indossato una mascherina sarà costretto, prima o poi, a farlo, ovunque. Come affrontare, da cittadini e da credenti, questo tempo, e quello che verrà?

Sperimentiamo turbamento e apprensione, ci confrontiamo con la paura, ma non vogliamo essere sopraffatti da essa. L’impegno e la dedizione degli operatori sanitari che combattono in prima linea la malattia sono il simbolo di una comunità decisa ad aiutare chiunque, in particolare i più deboli e i più vulnerabili. Le tante espressioni di volontariato che restano al fianco di chi è più povero e fragile lo mostrano. I poveri, gli anziani, quanti sono affetti da patologie differenti dal covid-19, le persone con disabilità, i senza dimora, chi è in carcere, vivono oggi con maggiore sofferenza la loro condizione. È compito di ciascuno far sentire loro una vicinanza premurosa e attenta, anche se meno “fisica” che in passato.

Papa Francesco ha avuto l’audacia di porsi come intercessore per l’umanità colpita dal coronavirus. Lo ha fatto andando a pregare davanti all’icona di Maria Salus populi romani e poi davanti allo storico Crocifisso nella chiesa di San Marcello al Corso, lo stesso che Giovanni Paolo II durante il Giubileo del 2000 volle in San Pietro per la liturgia di confessione dei peccati commessi dalla Chiesa nella storia. Il Papa ha detto: «Ho chiesto al Signore di fermare l’epidemia: fermala, Signore, con la tua mano!».
Parole ispirate dalla fede e dalla convinzione dell’efficacia della preghiera. Sono però parse stonate ad alcuni che hanno sottolineato come la vittoria sul virus si può ottenere grazie alla competenza umana e soprattutto alla ricerca scientifica e alla medicina. Dobbiamo essere sinceri e ammettere che per l’uomo secolarizzato di oggi è difficile, se non impossibile, pensare a un Dio che interviene a togliere il male. Questo soprattutto dopo l’acquisizione, anche nel pensare la fede, che Dio non manda il male per castigare i nostri peccati, perché non vuole la morte dei peccatori ma che essi si convertano e vivano.

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