Gino Strada, la pace come cura dalla guerra

di Massimo Castellani in “Avvenire” del 9 aprile 2022

Ho conosciuto Gino Strada grazie al mio maestro, Gianni Mura, quindi passando per la scorciatoia del calcio, la sua grande passione per l’Inter, condivisa con orgoglio e dignità con gli amici di famiglia, i Moratti. Poi ho scoperto la profondità dell’uomo, che era nato da gente normale e in «un buon posto per diventare medico», Sesto San Giovanni, la “Stalingrado d’Italia”. Infine, dopo, ho capito il grande valore del dottore più umano in cui mi sia imbattuto (con l’artistico e immenso dott. Enzo Jannacci), il quale la prima lezione non l’aveva mica appresa all’Università, dal mago della chirurgia Vittorio Staudacher, ma da sua madre, la quale quando seppe che il Gino voleva iscriversi a Medicina gli disse: «Fa il dutur, l’è minga un laurà, l’è una missiun». E quella missione, a volte anche impossibile nei luoghi in cui ha operato – non solo chirurgicamente – Gino Strada l’ha svolta da piccolo eroe esemplare, fino all’ultimo giorno (è morto il 13 agosto 2021).

Con la consapevolezza degli uomini giusti, attraverso l’arte medica, ha curato anche un po’ le anime, molte delle quali rendendole Anime salve, come cantava il suo amato “Faber”, Fabrizio De Andrè. I suoi ospedali da campo di quella concreta utopia che ha preso nome e forma solida di Emergency, l’hanno condotto in tutti i luoghi dove vivono, ma più spesso sopravvivono a stento, gli ultimi della terra. Ha masticato e sputato – assieme ai suoi “medici-missionari” del terzo millennio – polvere, da Kabul a Karthum. Ha schivato le vigliacche mine antiuomo e le bombe, cosìddette intelligenti, che cadevano dal cielo sopra Baghdad o Belgrado.

E questa memoria viva e più attuale che mai nei giorni della follia russo-ucraina, si ritrova nel suo “diario personale”, curato dalla moglie Simonetta Gola, Una persona alla volta (Feltrinelli. Pagine169, Euro 16,00). Questo libro, dopo il precedente del 2000, Pappagalli verdi. Cronache di un chirurgo di guerra (Feltrinelli) è il “testamento vivo” – che tutti noi dovremmo tenere a portata di mano e sfogliarlo, specie ora, per comprendere le ragioni profonde di un uomo che ha dato tutto se stesso per curare le ferite di quell’umanità povera e abbandonata che ha incontrato nel suo tortuoso cammino. Un percorso ultraminato che ha affrontato con la saggezza del filosofo Trasimaco, riscoprendo il valore di quelle parole connesse al suo “Manifesto per una medicina sui diritti umani”: «Solo un ipocrita, senza pudore o uno sprovveduto senza cervello potrà dirsi stupito: il giusto non è nient’altro che l’utile del più forte». Questo residuato di saggezza liceale, Gino lo custodiva con sé, portandolo nella bisaccia, specie nell’ultimo tratto coperto in soccorso di chiunque avesse bisogno del suo aiuto. La sua è stata una “democrazia medica”, sbandierata chirurgicamente. Uno stoicismo che lo ha messo anche di fronte alla gogna mediatica, perché «aiutare tutti indistintamente», è significato anche salvare la vita ai mefistofelici talebani. «Bisogna curare le vittime e rivendicare i diritti. Una persona alla volta», il suo monito, perenne.

Al cancro della guerra, il medico d’assalto ha sempre risposto con la terapia della pace.

Ponti di pace necessari quanto gli ospedali di Emergency, perché «la guerra per me ha sempre avuto la faccia di un uomo stravolto dalla sofferenza, il rosso caldo del sangue e la puzza di bruciato». Le riflessioni sulla guerra che si trovano in Una persona alla volta vanno lette e rilette ogni mattina, al risveglio da queste albe cupe e foriere di morte, dai governanti, dai geopolitici dell’ultima ora, da tutti noi uomini di informazione e dagli insegnanti che, prima della lezione, devono comunicare ai loro studenti un dato sconvolgente, quanto reale, che Gino Strada ci ricordava fino all’ossessione: «Le vittime di ogni guerra sono per il 90% i civili e un morto su tre è sempre un bambino». Da queste pagine affiorano le macchie dal sangue degli innocenti e si ode ancora il pianto disperato delle madri che come delle madonne tengono tra le braccia il proprio figlio ucciso dall’industria bellica. Non esistono dati certi sulla produzione della fabbrica del male e dell’odio, ma alla fine di ogni conflitto la conta dei morti e dei feriti confonde l’unica verità sulle motivazioni «tutte false», diceva, per cui quello scontro ferale si era scatenato. L’unica verità per Gino Strada erano le vittime che ha visto cadere e quelle che invece è riuscito a strappare alla morte, facendolo nell’unico modo che conosceva: «Potevo fare solo questo: curare i feriti e restituire un po’ di dignità alle loro storie». Storie mutilate, come quel bambino senza una gamba disegnato su una vignetta dall’amico Vauro, che per Gino valeva più di centomila opinioni: «Istruzioni per capire cos’è la guerra. Prendi la fotografia di un bambino afgano, e al posto della sua faccia, incollaci quella di tuo figlio».

Fatelo tutti, uno alla volta.

LA PASSIONE - NONVIOLENZA E PERDONO

Autore: 
Editore: 
Data di pubblicazione: Gennaio 2013

Libro fondamentale per una fede "adulta", capace di lasciarsi provocare dalle grandi domande e dalle vicende della storia! 

Lettura imprescindibile nel tempo di Quaresima

È da più di un millennio che la tradizione cristiana legge la passione di Gesù con la categoria sacrificale:‘’Cristo ci ha redenti con il suo sangue’’,‘’ci ha liberati dal peccato con la sua morte’’,‘’ha espiato con la sua sofferenza la colpa umana’’,‘’è morto sulla croce per salvare il mondo’’. Espressioni entrate profondamente nel linguaggio teologico, liturgico e catechetico che spesso hanno creato l’immagine di un Dio crudele e violento che, per essere placato nella sua collera, ha mandato a morire il figlio.

In questo libro toccante, disarmante, scritto con la passione della fede cristiana e con la lucidità della intelligenza antropologica moderna (Elmar Salman, dalla prefazione) Carmine Di Sante opera un radicale ripensamento di queste categorie e, alla luce degli studi più recenti, propone una chiave diversa.

“La via della croce è svelamento della nonviolenza quale rifondazione dell’umano. Rispondendo sulla croce alla violenza con la nonviolenza, Gesù ha sottratto alla violenza la pretesa di essere la parola ultima e sovrana dell’umano inaugurando una nuova possibilità: la messa in crisi del principio della forza, della potenza e della guerra con il nuovo principio della fraternità, dell’amicizia e della compassione. Relazione di Pace offerta all’altro incondizionatamente e gratuitamente, indipendentemente dalla sua stessa inimicizia, la fraternità è il senso stesso dell’umano così come istituito da Dio “fin dalle origini”, con la creazione, quando, contemplando ciò che aveva fatto, vide che “tutto era buono”. Ricreazione della creazione, la morte di Gesù in croce è per questo, per il Nuovo testamento, il più grande evento o indeito della storia” ... “Il valore imprescindibile della passione di Gesù nella storia umana alle prese con la fatalità della guerra è il nomos della fraternità che custodisce e grida. Nomos come relazione di pace da offrire all’altro incondizionatamente e gratuitamente dentro l’inimicizia e a prescindere dalla sua inimicizia, perché solo così si interrompe la fatalità della violenza e della guerra e, in un frammento di mondo torna a splendere il disegno creatore o regno di Dio dell’umanità fraterna” (Carmine di Sante)

Come ebbe modo di dire Benedetto XVI, “La nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto dell’amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità. Ecco la novità del Vangelo, che cambia il mondo senza far rumore. Ecco l’eroismo dei ‘piccoli’, che credono nell’amore di Dio e lo diffondono anche a costo della vita” (angelus del 18 febbraio 2007)

Carmine Di Sante ha studiato teologia presso l’Istituto Teologico di Assisi, si è specializzato in Scienze Liturgiche al Pontificio di Sant’Anselmo di Roma e si è laureato in Psicologia all’Università “La Sapienza” di Roma. Ha insegnato all’Istituto Teologico di Assisi e ha lavorato come teologo dal 1980 al 2000 al SIDIC (Service International de Documentation Judéo-Chrétienne) di Roma, un centro fondato dopo il Concilio Vaticano II per promuovere l’applicazione della Dichiarazione conciliare Nostra Aetate 4 e per favorire il dialogo ebraico-cristiano

Per un pugno di like

Il like è il simbolo del nuovo millennio. Quante volte al giorno ci ritroviamo a cliccare su quell’icona con il pollice in alto, spinti da una voglia irrefrenabile di esprimere il nostro consenso riguardo a un determinato argomento? Perché ci risulta così difficile desistere dal premere quel pulsante? Tutto questo se lo chiede il giornalista Simone Cosimi nel suo ultimo libro Per un pugno di like. Perché ai social network non piace il dissenso (Roma, Città Nuova, 2020, pagine 114, euro 16).

Un testo dal titolo originale — che si rifà al celebre film di Sergio Leone, caposaldo del genere spaghetti western, Per un pugno di dollari (1964) — che, «prima di schierarsi contro il like», per citare le parole di Bruno Mastroianni nella prefazione, cerca di comprenderne le dinamiche, interrogandosi, ad esempio, sulla necessità di “nutrire” la rete con informazioni, foto e video, pur di racimolare una manciata di pollici in su. Qualsiasi contenuto che condividiamo sul web, infatti, è sottoposto a un sistema di voto da parte degli altri utenti, il cui obiettivo è quello di giudicarne la validità o il grado di interesse. Si tratta di un sistema di votazione falsato però, dominato da un consenso forzato, poiché nella maggior parte dei casi esclude la possibilità di esprimere dissenso attraverso l’uso di un “dislike”. La condanna dell’autore, dunque, verte sul fatto che «non esiste il “Non mi piace”. Non c’è il cosiddetto “dislike”. Non esiste cioè, per farla breve, un pollice verso. Un elemento grafico che, dal punto di vista logico comunichi agli utenti un messaggio altrettanto chiaro rispetto a quello veicolato dal “mi piace”».

Il volume di Cosimi, ricco di spunti critici su cui riflettere, si pone sulla scia della condanna al digitale mossa dal filosofo sudcoreano e docente all’Universität der Künste di Berlino Byung-Chul Han. Nel suo saggio, intitolato Nello sciame. Visioni del digitale (2015), Han sostiene che la società digitale, quella dello “sciame”, con i suoi “like” di massa, annulla il dialogo e il discorso annientando, così, ogni forma di democrazia. «Quale democrazia è oggi possibile — accusa Han — rispetto a una sfera pubblica che scompare di fronte a una crescente trasformazione egotica e narcisistica? Forse una democrazia con il tasto “mi piace”?». L’assenza di un pulsante che esprima dissenso sarebbe quindi anche la causa per cui la massa non riesce ad agire in maniera coesa di fronte alle problematiche sociali e politiche dei nostri tempi. «Viviamo in una dittatura dell’ottimismo — scrive Cosimi — che ruota fondamentalmente intorno a un principio: chi ha qualcosa di diverso da dire rispetto a un banale pollice alzato deve faticare». E decidere di lasciare un commento sotto a un post per chiarire la propria posizione al riguardo, è decisamente meno appetibile che cliccare su un cuoricino (che spesso sostituisce il “like” come, ad esempio, su instagram o twitter) o su di una delle sue forme alternative, le reactions (come la faccina triste, quella sorpresa o arrabbiata). Così, confusi e frammentati, gli individui si perdono nelle infinite possibilità del web. Uno “sciame” — per utilizzare l’espressione di Han — fatto di singoli la cui unione, a differenza della folla del passato, non è più in grado di produrre alcuna azione concreta volta al cambiamento.

Nel libro — arricchito da tre focus di approfondimento su diversi temi di altri autori — si riflette anche sulla linea sottile tra un’azione apparentemente innocua, come il mettere “mi piace” a un post, e il supporto di movimenti, contenuti e commenti razzisti, fascisti o antisemiti presenti in rete. Molti sono gli interrogativi: quando un post si può ritenere diffamatorio? in che modo la sete di like spinge le persone a modificare il proprio comportamento quotidiano? E ancora, se la piattaforma virtuale è già pervasa dal peggio, come odio, neonazismo, sovranismo bianco, adescamento di minori, stalking e così via, «il problema, allora, è davvero fornire agli utenti l’opportunità di sganciare un sonoro “non mi piace”»?

Un dialogo equilibrato che ci mette in guardia sulle conseguenze che potrebbero scaturire dal nostro prossimo “like”. Charles Bukowski, in Panino al prosciutto, scrive: «Il mio cucchiaio era piegato in modo che se volevo mangiare dovevo impugnarlo con la mano destra. Se lo impugnavo con la sinistra, il cucchiaio era piegato dalla parte opposta rispetto alla bocca. Volevo impugnarlo con la sinistra».

Così, come il protagonista del libro, per abbattere la “dittatura” ottimistica della rete al lettore schiavo delle regole del web, non resta che forzare gli schemi.

di Ilaria Pennacchini

Articolo apparso su Osservatore Romano di Venerdiì 28 Febbraio 2020

Odierai il prossimo tuo. Perché abbiamo dimenticato la fraternità. 

Riflessioni sulle paure del tempo presente,

Il nuovo libro di Matteo Maria Zuppi, Cardinale Arcivescovo di Bologna, scritto con il giornalista Lorenzo Fazzini.

Piemme, pagine 192

Diventiamo davvero individui solo quando siamo capaci di stare assieme ad altri liberandoci dall’orgoglio. Una anticipazione del nuovo libro del cardinale Matteo Maria Zuppi «Odierai il prossimo tuo»

"So di non dire niente di particolarmente originale nell’esemplificare alcune conseguenze di un individualismo che rischia di diventare, nella nostra epoca, parossistico. Sono tante, però, le patologie che crescono in individui senza un “noi” e penso possa essere utile guardarci dentro. Siamo la generazione più connessa della storia, ma anche la più sola. Che il governo britannico abbia scelto di istituire un “Ministero della Solitudine” la dice lunga sullo stato del nostro vivere sociale, così come il dato Istat secondo il quale in Italia un nucleo familiare su tre è composto da una persona sola ci parla di una condizione di isolamento reale. Siamo l’umanità che può scegliere con estrema facilità i propri interlocutori e stabilire senza difficoltà quali possono essere i propri partner (affettivi, relazionali, lavorativi, di relax), ma tutto questo avviene spesso all’insegna di passioni di superficie, cangianti, alle quali ci abbandoniamo davvero solo se pensiamo di poter controllare e limitare le conseguenze, cioè il “prezzo” che l’altro potrebbe chiederci di pagare per amarlo davvero.

Vogliamo essere liberi, ma siamo prigionieri dello spazio e delle cose, catturati dal momento, come nell’agone digitale. Sappiamo così poco andare oltre noi stessi ed entrare nel tempo e nelle relazioni, condotti come siamo dalle correnti emozionali, come se queste, vissute senza amore, non fossero a loro volta parte di un calcolo (fin dove lasciarci andare?) e frutto di convenienze. Vogliamo rapporti veri, ma nel contempo tutto attorno a noi ci spinge a misurare ogni cosa, e questo spegne ogni autenticità. Nei decenni passati, quando esistevano appartenenze importanti, fisiche o ideologiche (i partiti, i sindacati, i “gruppi”, la famiglia), la regola era la militanza: grande impegno e coinvolgimento personale, abnegazione, sacrificio, desiderio di contribuire personalmente al bene comune, assieme al rischio della collisione con altre militanze. Oggi le appartenenze sono piuttosto digitali, comunque più individualistiche e frammentarie, condizionate da opportunità, affinità iniziali e non verificate, oppure contingenze. Cosa diventa un individualismo di questo genere se non crescono parimenti la responsabilità, la capacità di discernimento e di visione che sono possibili solo in un rapporto con il prossimo?

Anche la diffusa paura di donare vita e di generare deriva in larga parte, a mio modo di vedere, da una paura figlia dell’individualismo e dal timore di una responsabilità diversa da quella dell’attimo presente. L’inverno demografico in cui siamo immersi sconta, certo, la mancanza di servizi adeguati in una società frammentata, e lo spostamento nel futuro dell’assunzione della responsabilità e della limitazione delle proprie libertà personali. Ma è davvero espressione di un grande timore della responsabilità e del futuro [...].

L’egocentrismo – io penso – ha pretese senza limite, perché il vero limite, che non riesco mai a superare da solo, sono io stesso: quell’io su cui punto tutte le mie risorse. L’egocentrismo ci persuade che staremo bene solo assecondando il nostro io, anche a costo di rovinare i rapporti con le persone più care. Così finiamo per scegliere la parte e non il tutto, lo spazio e non il tempo, la difesa delle cose piuttosto che la costruzione dei rapporti, come evidenzia papa Francesco nel suo testo programmaticoEvangelii gaudium. Le idee diventano più importanti della realtà, tanto che ci accontentiamo di una vita virtuale, delle nostre intenzioni, o finiamo per scambiare la realtà con le nostre interpretazioni. Aveva proprio ragione papa Giovanni XXIII, secondo quanto ebbe a riferire il suo segretario, il futuro cardinale Loris Capovilla. Papa Roncalli, poco dopo l’annuncio della convocazione del Concilio Vaticano II, disse: «Finché uno non mette il suo io sotto le scarpe, non sarà mai un uomo libero ». Solo liberando l’io dall’orgoglio l’uomo trova se stesso e diventa individuo, ma non solo: è se stesso proprio perché capace di stare insieme ad altri, senza rimanere un’isola".

(Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri S.p.A. © 2019 Mondadori Libri S.p.A., Milano)

Apparso su Avvenire Domenica 24 Novembre 2019

Dal monte uno sguardo sulla città

A colloquio con l’abate di San Miniato al Monte, predicatore degli esercizi spirituali quaresimali al Papa e alla Curia romana ·


Un monaco immerso nella città. Con la sua esperienza benedettina messa al servizio di chi deve confrontarsi ogni giorno con le sfide pastorali e sociali che la vita quotidianamente mette davanti. Usando la ricchezza spirituale e umana non solo del grande Benedetto, ma anche di uomini di fede come Giorgio La Pira e il poeta Mario Luzi. È con questo bagaglio che l’abate di San Miniato al Monte a Firenze, dom Bernardo Francesco Maria Gianni, predicherà al Papa e alla Curia romana gli esercizi spirituali nella casa Divin Maestro in Ariccia, dal 10 al 15 marzo, sul tema «La città dagli ardenti desideri. Per sguardi e gesti pasquali nella vita del mondo». Ne parla in questa intervista a «L’Osservatore Romano».

Perché la scelta di ispirarsi a Mario Luzi per gli esercizi spirituali?

L’ho scelto perché con la poesia esprimeva molto bene il tema sul quale potevo mettere a disposizione al meglio la mia anima e la competenza della mia vita monastica, cioè lo sguardo sulla città che la basilica di San Miniato al Monte permette. È assimilabile allo sguardo con cui Gesù guarda Gerusalemme. Non a caso sulla facciata della basilica c’è il volto di Cristo che benedice tutta Firenze. Siamo convinti che da mille anni la nostra presenza benedettina serva a rendere quello sguardo vivo riconoscibile, percepibile, desiderabile. La poesia di Luzi ha il grande pregio di aver interpretato tutto questo, parlando di memoria, di speranza, di fuoco degli antichi santi. Certamente, c’è il rischio che il fuoco si attenui nel tempo, ma con la forza dello spirito si può riattizzare. Questo è il senso dell’immagine degli ardenti desideri: cercare di dare continuità al grande sogno di La Pira. Che era il sogno con cui immaginava Firenze una nuova Gerusalemme, una città piena di bellezze teologali capace di attirare tutte le nazioni per un progetto di pace e di giustizia.

Che spazio darà a La Pira nelle meditazioni?

Una delle prime meditazioni è intitolata «Il sogno di La Pira». Si comprende bene come il riferimento alla città non è politico, sociologico, cioè meramente civile, ma teologale, biblico, spirituale. Bisogna cercare di testimoniare, interpretare dal punto di vista mistico come quello di La Pira. Nelle meditazioni vi aggiungo anche quei numeri di Evangelii gaudium in cui il Papa invita a cercare Dio nella città. Questa è una prospettiva che per noi è estremamente eloquente e significativa, perché da San Miniato contempliamo la città e dalla città siamo invitati a cercare il suo mistero, la sua vocazione.

Quanto vi sarà della tradizione benedettina e monastica nei suoi esercizi?

Direi che l’attraversa totalmente, perché in realtà questi esercizi sono una estensione delle modalità benedettine di vivere la Parola, la liturgia, il confronto con i Padri nella realtà presente. Un’estensione che prolunga lo sguardo del monaco dal chiostro alla città che è di fronte al monastero. Nella prospettiva che il monastero non è un’alternativa alla città, ma una testimonianza esemplare, paradigmatica, autentica, nella quale la città potrebbe ritrovare le ragioni della sua vocazione, del suo mistero, presente e futuro. San Miniato fa parte della realtà organica della città per cui il nostro contributo non può che essere per la città una coerenza benedettina, con la quale testimoniare l’amore per il tempo, la cura degli spazi, l’operosità nel lavoro, la vita fraterna, l’accoglienza. E su tutto una ritrovata tensione escatologica, perché San Miniato è simbolo per Firenze. È la nuova Gerusalemme che scende dall’alto. È effettivamente l’immagine profetica di quello che sarà ogni città del mondo. Tutta questa vita, nonostante la debolezza e la fragilità di ciascuno di noi, è il patrimonio con il quale quotidianamente guardiamo la città e il patrimonio con il quale in quei giorni di esercizi tenterò di offrire una prospettiva utile a rinnovare e ravvivare l’amore per il Signore in tutti coloro che mi ascoltano in funzione della loro missione. Che a differenza di quella del monaco è tesa e protesa verso l’umanità assetata di Dio in una dimensione pastorale con tutte le dinamiche di chi ha a cuore la Chiesa universale.

Cosa significa essere monaci in una città?

Il significato è quello di grande gratuità, umiltà e semplicità di cuore, senza ritenersi chiamati per questo, ma proprio nello spirito dell’apparente inutilità della realtà monastica. Il monaco vive intensamente il Vangelo così da rappresentare al cuore stesso della città la possibilità di una modalità davvero evangelica della vita: quella, in qualche modo, di dare un orizzonte di compimento a tutto ciò che si fa in città troppe volte dimenticandosi della verticalità che la nostra vita appartata, con gli orari singolari, con i tanti segni e simboli propri della vita monastica, può incarnare. È importante, soprattutto, semplicemente esserci. Il monaco non si fa monaco per dire, per fare qualcosa. Il monaco è una risposta alla chiamata del Signore. Tutto il suo esserci induce a riconoscere una possibilità di mistero che si sottrae alle tipiche logiche con cui la città il più delle volte sopravvive invece di vivere.

A cosa si riferisce con l’espressione «la città dagli ardenti desideri»?

Si tratta di un verso di una poesia di Luzi. Il verso forse più evocativo, anche se a prima lettura un po’ ambiguo, ma molto bello. Il tema del desiderio è un tema tipicamente monastico. Dom Jean Leclercq ha scritto un libro bellissimo sul desiderio di Dio. Il monaco, essendo un cercatore del Signore, come lo vuole san Benedetto, è una creatura che desidera. Che cosa? Il capitolo sulla Quaresima lo dice chiaramente: desidera giungere alla Pasqua con la gioia dello Spirito Santo. Per cui direi che «la città degli ardenti desideri» è una città che finalmente si accende di speranza, di desiderio, di attesa. Vince la stagnazione, la rassegnazione, l’individualità e riscopre un fuoco antico. Se ne lascia attraversare per illuminarsi. Si lascia illuminare nei suoi anditi più reconditi per scoprire con la forza e la chiarezza del Vangelo le proprie contraddizioni, perché il fuoco del Vangelo illumini orizzonti più bassi in una prospettiva che è quella che spesso Papa Francesco sottolinea, con uno sguardo sulla realtà lucido, non disperato o disperante, non di critica o di giudizio fine a se stesso; piuttosto, come avrebbe detto Paolo VI alla fine del Concilio, di simpatia. Crediamo che questa simpatia si accenda nel donare alla città nuovi desideri, nuove attese, nuove speranze, come del resto Mario Luzi evoca ricordando che la città al tempo di La Pira aveva «ardenti desideri». Ora li ha attenuati. Prendersi per mano sugli spalti di San Miniato, accendendo di nuovo il fuoco dei santi, può finalmente restituire «ardenti desideri» alla civitas. Il messaggio degli esercizi è chiaro: la Chiesa ha una responsabilità enorme in questo. Perché forse ormai solo la Chiesa sa custodire memoria e speranza insieme per grazia del Signore. Ogni pastore, senza presunzione, ma con grande umiltà, dal Papa in giù, è chiamato a riaccendere e a riattivare queste esperienze. In un momento degli esercizi cito il versetto di san Paolo a Timoteo dove si chiede di “ravvivare la vocazione che è in te”. Il verbo che Paolo usa è proprio riaccendere, connesso con l’idea del fuoco. Questi sono gli «ardenti desideri»: lasciare che lo Spirito Santo trasformi la nostra esperienza ecclesiale e civile in un bagliore che ricordi a tutti il mistero, cioè che la vita non basta a spiegare la vita, ma c’è bisogno di altro.

Chi è dom Bernardo?

Ho passato i miei anni liceali e universitari lontano dalla Chiesa. Poi nella notte di Natale del 1992, ho avuto la grazia di una vera e propria conversione e vocazione nella chiesa delle benedettine di Rosano. Essa resta per me come il santuario del mio incontro con il Signore. Proprio lì sono stato fortemente invitato dalla bellezza, dalla profondità e dall’intensità della liturgia del mistero del Natale, a entrare in una dimensione tutta per me: essere desiderato e cercato da un Dio che ti conquista con la sua piccolezza, con la sua infanzia, che in qualche modo si arrende alla sua forza per venirti incontro, sperando che a tua volta anche tu ti arrendi alla sua potenza di amore. Quella celebrazione ha cambiato radicalmente la mia vita e mi ha fatto riscoprire il gusto tipico dell’esperienza benedettina che è il quaerere Dei. Una tensione che mi ha talmente preso il cuore da sembrarmi una ragione nuova di vita, totale, incondizionata. Tanto da farmi immediatamente pensare alla possibilità di diventare monaco, cioè di dedicare tutta la vita a cercare quelle orme, quelle tracce del Signore che quella notte ho trovato: finalmente le avevo ritrovate sul mio cammino. Sono entrato tra i benedettini olivetani perché quella notte c’era un monaco dell’abbazia di San Miniato al Monte. Subito dopo Rosano, infatti, San Miniato, anche nella mia fase laica, era parsa la basilica dove si respirava una percezione di mistero, di intensità di fede, desiderabile e invidiabile. Per cui mi è sembrato naturale qualche giorno dopo bussare alle porte dell’abbazia benedettina olivetana.

Come ha accolto la decisione del Pontefice di sceglierla come predicatore degli esercizi?

Con immensa trepidazione, una buona dose di incredulità e con grande gratitudine al Signore e al Papa. Mi ha colto un profondissimo senso di inadeguatezza che Francesco ha apprezzato, quando mi ha chiamato. Mi sono reso disponibile alla sua offerta, perché mi sono sentito chiamato, ma ho fatto presente di sentirmi molto inadeguato. E il Papa mi ha risposto che questa è un’ottima premessa per far bene gli esercizi.

di Nicola Gori

Osservatore Romano, 9 Marzo 2019

La città dagli ardenti desideri. Per sguardi e gesti pasquali nella vita del mondo

Bernardo Gianni

Editore: San Paolo Edizioni

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