Dovevo partire per l’Iraq per rivedere mia figlia, operatrice umanitaria nella regione del Kurdistan, ma il blocco imposto dal governo iracheno agli arrivi dall'Italia mi ha tristemente trattenuto a casa. Al di là dei miei sentimenti, la vicenda in cui sono stato coinvolto mi pare emblematica delle conseguenze dell’allarme coronavirus.

Anche in questi giorni non manca chi ripropone il nesso virus-migranti, agitando una delle paure più antiche e radicate nei confronti degli stranieri: che importino pandemie incontenibili. Di qui le reiterate richieste di blocchi delle navi che trasportano persone salvate in mare, di quarantena per gli immigrati irregolari che entrano via terra dai confini nord-orientali, e altre parole in libertà.
Dopo i cinesi, sono ora i nuovi arrivati a finire nel mirino: gli stranieri poveri e politicamente deboli, mentre nei confronti dei turisti provenienti da tutto il mondo cresce il rammarico per la pioggia di disdette. Stando a questi improvvisati ma rumorosi esperti di igiene pubblica, dovremmo attuare misure cautelative schizofreniche, severissime soltanto verso chi non arreca benefici all’industria turistica o agli scambi economici.

Come se chi viaggia per diporto o per affari fosse meno portatore di contagio di chi fugge da guerre e regimi oppressivi, malgrado i casi già accertati di turisti ricoverati perché colpiti dal virus.

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