La prima impressione è quella di un Paese a un passo dalla guerra, sottoposto a minacce esterne gravissime. Il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica presieduto dal ministro Salvini ha sfornato l’idea di schierare la Marina militare e la Guardia di Finanza per «blindare i porti» italiani, ma in realtà per contrastare gli sbarchi spontanei dalle coste africane, di rafforzare la sorveglianza dei mari ricorrendo a radar e aerei militari, di rilanciare per l’ennesima volta gli accordi con la Tunisia per il controllo delle partenze e per i rimpatri: ossia di finanziare un governo nordafricano affinché s’impegni maggiormente nell’ingrato compito di guardia di frontiera esterna. Surreale suona poi la decisione di regalare altre dieci motovedette alla Libia in guerra, quando anche si è dovuto riconoscere che i porti di quel Paese non sono sicuri: a che cosa serviranno, se non a riportare indietro verso le sue coste persone in cerca di asilo?

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Chi stiamo diventando? Uno degli argomenti chiave nella complessa questione delle migrazioni riguarda la presunta minaccia alla nostra identità che l’afflusso di una certa tipologia – etnica, religiosa, reddituale – di stranieri rappresenterebbe per la società italiana. Ma attualmente a preoccupare maggiormente non dovrebbe essere un’ipotetica futura "sostituzione" dell’italianità – qualunque cosa significhi questo termine – con elementi estranei alla storia e alla cultura del nostro Paese, quanto piuttosto un già avvenuto mutamento nel modo di pensare, di parlare e di agire fino a pochi anni fa patrimonio largamente condiviso.

Per anni ho insistito preoccupato sui piccoli passi quotidiani verso la barbarie: ormai vi siamo immersi, così che sentimenti ed emozioni di cui un tempo ci si vergognava, almeno in pubblico, ora sono esibiti come trofei di guerra. Specularmente, atteggiamenti di solidarietà, condivisione, bontà, compassione vengono sfigurati e irrisi. «Pietà l’è morta» si cantava durante la resistenza al nazifascismo, rivendicando il diritto a ripagare con la stessa moneta della spietatezza che si macchiava di crimini contro l’umanità.

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Da diverso tempo si scrive con più interesse di Dorothy Day, fondatrice insieme a Peter Maurin del Catholic Worker e autentica testimone del pacifismo e della non-violenza. Profetessa criticata anche all’interno della stessa chiesa cattolica americana, con il suo pensiero — che molto ha del personalismo maritainiano — e con la sua testimonianza, ispira numerosi altri intellettuali tra i quali Thomas Merton, del quale lo scorso anno si sono celebrati i cinquant’anni della morte. Di lui — per il suo passato inquieto, girovago e senza radici — padre Simeon Leiva ha detto che è «rappresentativo dell’uomo del ventesimo secolo». Come scrive Robert Ellsberg nella prefazione di una delle lettere della Day a Merton, quest’ultimo, prima di entrare in monastero, aveva lavorato con Catherine de Hueck, una carissima amica di Dorothy, alla Friendship House di Harlem.

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Con sempre maggior frequenza si parla oggi di crisi della paternità e anche della maternità, ma ritengo che nel nostro occidente si debba cogliere, alla radice di tali fenomeni, una crisi della fraternità molto attestata. Possiamo constatarla nel nostro paese dove, secondo autorevoli e puntuali letture sociologiche, sono cresciuti il rancore e la cattiveria e, attraverso la negazione di molti legami sociali, si nega la fraternità.

La fraternità come vincolo e bene essenziale alla convivenza e alla comunità, la fraternità come impegno universale è stata un’“invenzione” del cristianesimo, anche se il sentire comune la colloca all’interno della celebre triade coniata dalla rivoluzione francese: “liberté, egalité, fraternité”. Lungo i secoli, per la libertà e l’uguaglianza si è combattuto; la fraternità, invece, non ha ricevuto l’attenzione che sarebbe stata necessaria affinché libertà e uguaglianza fossero affermate con un fondamento. Esiste un diritto alla libertà e un diritto all’uguaglianza, due concetti che possono essere specificati: libertà di espressione, di movimento, uguaglianza di genere, ecc. La fraternità, invece, non ha genitivo e non può riguardare un individuo ma solo la communitas: non c’è fraternità del singolo! Per vivere la fraternità occorre sempre che ci sia l’altro e che sia affermata la relazione, la quale resta la nostra prima vocazione

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Caro direttore,

oggi parlare di difesa dell’ambiente e di sostenibilità significa prendere atto del radicamento in queste tematiche delle questioni della povertà e della diseguaglianza. La Chiesa lo ha fatto introiettando la spinta arrivata dalla Laudato si’ e da esortazioni come l’Evangelii gaudium. Una spinta che riguarda la tematica etica di come dimorare sulla terra, dove la questione della giustizia sociale richiede una visione che papa Francesco chiama di «ecologia integrale». Si tratta di superare l’antropocentrismo per rilanciare la centralità dell’essere custodi del Creato. Qui la tradizione cristiana ha da imparare da altre tradizioni religiose e da visioni del mondo con un approccio più armonioso e integrato, rivolto all’ecologia e al mondo naturale.

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