Per i governanti la liturgia cristiana ha una speciale preghiera. I governanti cambiano nel tempo, i buoni governanti sono una grazia, i cattivi una sventura. Ma la preghiera è costante. Per i capaci e per gli incapaci. Per i buoni e per i cattivi ("etiam discolis", dice la Scrittura). Ne abbiamo avuti in passato e forse ancora qualcuno.

Ma, fatta la preghiera, invocata sugli incapaci la sapienza e sui discoli il ravvedimento, laicamente da cittadini pretendiamo da tutti loro il rispetto delle regole fondamentali che reggono il villaggio umano, la convivenza civile, la libertà e la giustizia garantita dall’equilibrio dei poteri e delle funzioni sovrane. Almeno il rispetto essenziale delle regole di sistema. Sentire uno dei governanti caricare a testa bassa contro la pronuncia di un giudice della Repubblica, perché non ha confermato i ceppi ai polsi di Carola Rackete, e l’ha invece liberata dicendo che il suo attracco nel porto non è stato un «delitto», ma un «dovere» giuridico, sentirlo coprire di contumelie la giovane comandante della nave di salvataggio, è francamente intollerabile

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n un futuro non troppo lontano con ogni probabilità non sarà (solo) il colore della pelle a discriminare i popoli, quanto la capacità di reggere il peso dei cambiamenti climatici. In altre parole, il mondo vivrà (anzi: già cominciando a vivere) una nuova fase, caratterizzata dall’«apartheid climatico». Se "Avvenire" mercoledì scorso, in questo rovente giugno italiano dell’anno 2019, ha dato molto risalto all’allarme lanciato da Philip Alston, relatore speciale dell’Onu sui diritti umani e la povertà estrema, è perché lo scenario all’orizzonte rischia di caratterizzarsi come un inedito assoluto. La voce di Alston non è quella dell’apocalittico che gioca a impaurire l’opinione pubblica per lucrare consenso, né quella dell’attivista ideologico che procede per slogan. No: il signore in questione è un apprezzato giurista australiano, docente di diritto internazionale a New York, che da lunghi anni collabora con le Nazioni Unite.

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Povera Italia, povera Europa, povera legalità e povera la nostra anima. Mentre infuria la battaglia delle parole sull’approdo drammatico della "Sea Watch 3" a Lampedusa e mentre il ferro e il fuoco delle recriminazioni, delle invettive, delle maledizioni e delle bestemmie incendiano persino il mare, si gonfiano e crescono lo strazio, l’umiliazione e la fatica a trattenere il pianto. Non c’è ragione e non ci sono ragioni che spieghino e comprendano ciò che nella notte del 29 giugno 2019, notte dei santi Pietro e Paolo, è potuto accadere nel porto di quell’isola immersa nel Mediterraneo e che un po’ tutti negli anni – grazie alla generosità della sua gente e alla salda testimonianza della sua Chiesa – abbiamo imparato ad ammirare, amare e a chiamare "speranza".

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Da una parte ci sono i disattesi trattati internazionali, dall’altra i polmoni gonfi d’acqua di chi annega. Da un lato le convenienze politiche di questo o di quello, all’angolo opposto i polpacci scuoiati di un ragazzo sopravvissuto ai campi libici. Ne ho visti tanti così, reduci dalla barbarie animalesca che trionfa in mezzo al deserto, ammutoliti, offesi, mortificati, resi cinici dalle violenze subite, incapaci di reagire, invalidi spirituali che poi, una volta arrivati non so come nelle terre della proclamata civiltà giuridica del Vecchio e Nuovo Continente, sembrano quasi increduli nel verificare sulla propria pelle l’ipocrisia dei dettati costituzionali.Non erano proprio Italia e Francia, Germania e Olanda, Stati Uniti d’America, le nazioni più sviluppate? Paesi in grado di sconfiggere per sempre la legge della jungla, nelle cui metropoli affollate e vorticose sarebbero finalmente sfuggiti ai soprusi ferini. Dunque si trattava di fandonie. Menzogne. Trucchi. Inganni a catena. Per questo i corpi che continuano ad affogare nel Mar Mediterraneo vanno idealmente posti accanto ai cadaveri del padre e della figlia fotografati sulle rive del Rio Grande che Donald Trump ha trasformato in un campo di morte.

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«Il cambiamento climatico minaccia di annullare gli ultimi cinquant’anni di progressi nello sviluppo, nella salute globale e nella riduzione della povertà» e, già entro il 2030, «potrebbe condurre oltre 120 milioni di persone in una situazione di maggiore povertà e denutrizione», aumentando drammaticamente il gap tra ricchi e poveri. È l’allarme lanciato dal relatore speciale dell’Onu sull’estrema povertà e i diritti umani, Philip Alston, in un rapporto presentato al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, che si basa su studi già pubblicati dalla Banca mondiale, nonché da altre agenzie dell’Onu e Ong.

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