n un futuro non troppo lontano con ogni probabilità non sarà (solo) il colore della pelle a discriminare i popoli, quanto la capacità di reggere il peso dei cambiamenti climatici. In altre parole, il mondo vivrà (anzi: già cominciando a vivere) una nuova fase, caratterizzata dall’«apartheid climatico». Se "Avvenire" mercoledì scorso, in questo rovente giugno italiano dell’anno 2019, ha dato molto risalto all’allarme lanciato da Philip Alston, relatore speciale dell’Onu sui diritti umani e la povertà estrema, è perché lo scenario all’orizzonte rischia di caratterizzarsi come un inedito assoluto. La voce di Alston non è quella dell’apocalittico che gioca a impaurire l’opinione pubblica per lucrare consenso, né quella dell’attivista ideologico che procede per slogan. No: il signore in questione è un apprezzato giurista australiano, docente di diritto internazionale a New York, che da lunghi anni collabora con le Nazioni Unite.

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