Alcune volontarie di Sesto San Giovanni, le donne straniere e la loro voglia di studiare e di lavorare. Racconto di un progetto di integrazione. E di interazione.

Vengo dall’Egitto, mi chiamo Nagwa. Nagwa vuol dire segreto. Ho una sorella gemella, che si chiama Nashwa. Nashwa vuol dire felicità. Nagwa e Nashwa! Ma non siamo uguali: lei ha i capelli scuri e gli occhi scuri. E poi lei è in Egitto, adesso. Oggi è il compleanno della nostra mamma.

Io sono Carina ... cioè, il mio nome è Carina! Non sapevo cosa volesse dire Carina in italiano, l’ho scoperto quando sono venuta qui. La scuola delle mamme è molto interessante perché la lingua italiana è bella; è anche divertente perché  ci sono le bambine e quando studio le vedo. Siamo maestre, mamme, bambini, volontarie ma siamo come una famiglia; anche le bambine sono diventate amiche.

Quando non c’è la scuola e devo stare a casa, divento triste. Mi chiamo Van, che in vietnamita vuol dire nuvole. La mia bambina si chiama Ohamay, che è il nome di un fiore, che in italiano è quel fiore che si soffia, si chiama... soffione!

Mi chiamo Mariam, ho sei anni. La mia mamma va alla scuola delle mamme. Io vado alla scuola dei bambini e da grande voglio fare la maestra.

Io mi chiamo Katia e vengo dalla Giordania. Il mio sogno è essere una regina!

Mi chiamo Maria Simona, sono di Sesto San Giovanni. Ho un bambino che si chiama Nour e ha quattro anni. Da tanto tempo il mio sogno è insegnare italiano alle mamme come me. Ogni volta che siamo qui a scuola, sto bene. Mi piace stare con voi.

RACCONTI DAL MONDO

La scuola delle mamme significa per me un anno di esperienza d’insegnamento e qualche sprazzo di aiuto nell’organizzazione degli anni scorsi, quando ero distaccata come direttrice al Cespi. Ora, da pensionata, dopo 25 anni di insegnamento alle scuole medie e un po’ più di una decina nei licei della provincia e della città di Milano, son qui a guardare negli occhi Karina, dalle filippine, che vorrebbe un lavoro, Heba che non riesce a mollare il suo piccolo principe, Alexander, che gira intorno al tavolo con lui, oppure ci gioca – vicinissima a noi – dicendo: “Almeno ascolto parlare italiano” e Amina, Leyla, Salwa ... tante altre donne e tanti altri bambini come erano i miei (quasi non me li ricordo più). Nel cuore m’entra Ibtissem con il suo fluent italien, che vuole un futuro in Italia per il suo bambino (“Non è per me, ma per lui”).

La loro compagnia mi fa respirare meglio, prendere profondamente aria, in questo clima intossicato dalla mentalità razzista e ignorante, che ha cambiato l’antropologia degli italiani, come l’inquinamento ha sconvolto il nostro bel clima mediterraneo. Oggi abbiamo spiegato gli opposti, come l’opposto di sereno sia preoccupato, ma anche nuvoloso, tuffandoci in metafore meteorologiche. Ascoltiamo i racconti dal mondo: la cugina di Heba che ha partorito in casa, solo con l’aiuto del marito, in Siria, sotto i bombardamenti, perché con il coprifuoco il medico non poteva uscire dall’ospedale, ma (dicono sempre Grazie a Dio) sta bene e vive. La guerra, quella vera, arriva a scuola, ma anche la nascita della vita, che resiste. Non è solo lo scambio culinario che ci arricchisce, scambio che mescola odori, ingredienti e profumi di varia provenienza. Niente di più erotico e gustoso di un bel racconto. Come lo scoprire che l’amica marocchina, venuta qui per un matrimonio quasi combinato (rischiava di tornare in Marocco, manodopera gratuita nella famiglia di lui, perché qui non c’è lavoro) era in realtà una velocista: non solo pedalava sulla bicicletta per raggiungere dal suo paesino ai piedi dell’Atlante una lontana scuola, ma ha anche vinto una gara di corsa, lo si vede bene dal passo. Il velo, che porta da quando è emigrata, non le impedisce un pensiero libero e un desiderio grande di autonomia femminile, che sa tenere insieme alla responsabilità nei confronti dei figli e del marito, in una lotta serrata contro la durezza della situazione che vive. Ecco ciò che ci tiene insieme, nonostante tutte le difficoltà: il valore della vita. In questo siamo poliglotte, anche se non tutte conosciamo l’arabo, l’urdu, il tagalog e a volte ci arrangiamo con l’inglese come lingua veicolare. Rispetto alla mentalità corrente siamo tutte alloglotte, parlanti un’altra lingua, una nuova lingua, che balbettiamo sbagliando, correggendoci reciprocamente. Custodiamo reciprocamente la vita nostra, dei bambini, del mondo. Non è solo una scuola di italiano, la nostra: è uno spazio di confronto vitale, di crescita comune, di “donne che aiutano le donne”. Le amiche che, da volontarie come noi, curano i bambini con amore e professionalità, non dimenticano la torta della settimana.

Per tanti motivi ci inseriamo il più possibile nelle reti cittadine che cominciano a esistere: in quella contro la violenza, nelle Caritas: senza di esse non riusciremmo a reggere un minuto le sfide che la scuola ci pone nella relazione con le donne migranti. Io so quanto bene mi fa il dialogo con le donne migranti: mi apre all’universo che non ha un centro, ma – ne sono sicura – ha un verso, una direzione che tutte insieme stiamo cercando.

DONNE

Le vedi per le strade, le incontri al mercato a fare la spesa, le incroci nell’ascensore del tuo condominio. Sono tante le donne che indossano il velo dai vari colori e gli abiti lunghi anche a Sesto San Giovanni. Abbozzano un saluto, ma non sanno l’italiano. Con i figli parlano arabo e spesso sono proprio loro, frequentando la scuola, a insegnare qualche parola. Dove e come incontrarle? Quale conoscenza e dialogo è possibile stabilire in un contesto di sospetti e di indifferenza? Una opportunità è costituita proprio dalla scuola di italiano promossa dal Cespi (Centro Studi Problemi Internazionali, NdA), a cui partecipano una quindicina di donne quasi tutte provenienti da Paesi arabi come il Marocco e l’Egitto, e anche dalla Siria, dal Bangladesh, dal Pakistan, dalle Filippine. In maggioranza sono musulmane. La caratteristica della scuola è il fatto che vengono con i loro bambini, i più piccoli hanno qualche mese e i più grandi tre/quattro anni. Un gruppo di volontarie si occupa di loro, mentre le mamme sono impegnate nel seguire le lezioni. Due le insegnanti, Simona e Patrizia, due i gruppi a seconda del livello di conoscenza: uno base e uno avanzato, due mattine alla settimana. Il luogo, sono i saloni della Parrocchia di San Giovanni Battista. Un ampio salone con uno spazio attrezzato per i bambini e uno per le mamme, sedute intorno ai due tavoli. La voglia di imparare è tanta, l’impegno è visibile, la partecipazione costante. C’è dell’altro. La scuola diventa spazio di conoscenza delle situazione personali, di condivisione dei vissuti e delle difficoltà, di sostegno e di aiuto reciproco. Si è creato un clima di fiducia e di accoglienza. L’appartenenza a una cultura “altra” si coniuga con la necessità di inserimento in un contesto diverso, di muoversi in ambiti sconosciuti. Ed ecco allora il darsi le informazioni sull’iscrizione al nido, sulle pratiche del permesso di soggiorno, sulla salute ed educazione dei figli. Una pediatra è invitata per un incontro ad hoc. La visita al nido “Piccoli e grandi” offre la possibilità di conoscere un ambito educativo per i piccoli e di confrontarsi con alcune pratiche e sistemazione degli spazi, utili alle volontarie per la gestione dei bambini. Anche per loro è un tempo importante non solo di gioco, ma anche di socializzazione e di apprendimento, almeno per i più grandi. C’è un obiettivo finale per le mamme: fare un esame per ottenere una certificazione di competenza in lingua italiana utile a un permesso di soggiorno. A questo si stanno preparando. Un obiettivo è stato già raggiunto: sperimentare una modalità di crescita comune, di integrazione senza pregiudizi, in cui ognuna si arricchisce della presenza dell’altra.

Patrizia Minella, Stefania Granata, Maria Simona Borella 

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