Prendere o lasciare: la globalizzazione non conosce vie di mezzo. Lo sapevamo già, almeno in teoria, ma è nei giorni dell’emergenza da Covid-19 che ce ne stiamo rendendo conto veramente. È come se vicino e lontano avessero cambiato di posto e tutto, all’improvviso, fosse qui e da nessuna parte, a portata di mano e irraggiungibile nello stesso tempo. Non troppo tempo fa le distanze erano chiare, le gerarchie rispettate. Quanto tempo fa, esattamente? Prendiamo il 1960, se non altro per amore della cifra tonda. Nell’anno delle Olimpiadi di Roma per qualche settimana si ha l’impressione che l’Italia sia di nuovo al centro del mondo, ma poi le delegazioni se ne tornano in patria, gli atleti salutano dalla scaletta dell’aereo con il loro carico di medaglie oppure di delusioni, e gli italiani si rimettono all’opera per dare consistenza al boom economico locale. Pochissimi i viaggiatori, all’epoca, e più per necessità che per diletto. Il 1960 è anche, per una curiosa combinazione, l’anno di Un mandarino per Teo, classica e addirittura proverbiale commedia musicale di Garinei & Giovannini incentrata su un dilemma morale sminuzzato a beneficio dello spettatore più ingenuo: ecco un pulsante, se lo premi in Cina muore un mandarino e tu diventi ricco, che cosa scegli di fare? D’accordo, quello che viene evocato è un Oriente da operetta o, se si preferisce, à la Jules Verne, nello stile delle Tribolazioni di un cinese in Cina. Quel che più conta, nello specifico, è la distanza percepita, che continua ad apparire insormontabile. Con Pechino e dintorni Teo non ha nulla a che fare, per questo può agire in modo tanto spensierato.

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