Internet si è rotto. La Rete che doveva connettere il mondo, facendo circolare le idee migliori, ha finito col premiare chi urla e odia di più, chi truffa, imbroglia o semina il male, a discapito del dialogo, del confronto e di tutto ciò che di buono c’è.

Le persone sono diventate utenti. Da usare, da fomentare, da manipolare (secondo l’Oxford Internet Institute, attraverso i social accade abitualmente in 70 nazioni). Perché litighino, si scontrino e si odino come accade solo tra le peggiori tifoserie. Oppure perché spendano senza sosta per rincorrere continue «offerte incredibili», sempre più mirate ed «emotive». Perché già oggi «gli under 40 non comprano prodotti ma emozioni».

Che internet si fosse rotto l’aveva già detto due anni fa il fondatore di Twitter. Una frase che ha fatto il giro del mondo. Scontrandosi con uno dei mali del nostro tempo: quando qualcosa si rompe, sempre più spesso siamo tentati di cambiarlo. Così ci ha insegnato il consumismo: meglio comprare un nuovo oggetto uguale che ripararne uno rotto. Ma come si fa, se a rompersi è Internet? Come si fa a costruirne un altro? Qualcuno, per la verità, ci ha pensato. Da una prospettiva sbagliata, però. Cioè quella di dare vita a un internet ancor più veloce ed esclusivo, ad appannaggio soprattutto delle aziende più potenti e delle persone più ricche. Un altro Internet fatto per escludere ancora di più, invece che includere.

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