Un viaggio nato dall’urgenza di offrire segni di risurrezione, di rinascita, di speranza

Si sono spenti da qualche settimana i riflettori sullo storico viaggio di Papa Francesco nella terra martire dell’Iraq, durante il quale si è definito “pellegrino e penitente”. Terra dalle antiche risonanze bibliche (Mesopotamia, Ur dei Caldei, Babilonia, Ninive), ma anche terra che ha occupato per decenni la geo-politica che ci entrava nelle case attraverso i media (l’invasione del Kuwait, Saddam Hussein, i bombardamenti americani su Bagdad trasmessi in diretta, la strage di Nassirya, la questione kurda, l’Isis e l’esodo dei cristiani). 

Un viaggio difficile e pericoloso, appesantito dall’incombere della pandemia verso la quale le autorità locali hanno offerto un’immagine non proprio … rigorosa. Un viaggio che il Papa ha voluto con forza e determinazione dal momento che sentiva come urgente offrire due segni di risurrezione, di rinascita, di speranza. Il primo riguardava la comunità cristiana, tanto antica, quanto decimata e perseguitata, specie dopo che l’occidente era riuscito a sbarazzarsi della presenza ingombrante del dittatore Saddam Hussein, sotto il cui regime i cristiani erano peraltro rispettati al punto che cristiano era anche il suo vice, Tareq Aziz. Basti pensare che, se fino alla caduta del regime avvenuta nel 2003 se ne contavano circa un milione e mezzo, oggi ce ne sono meno di 200.000. Una presenza che, specie con l’avvento dello “stato islamico”, ha subìto persecuzioni, distruzioni e martiri. Una presenza che ancora assiste ad un flusso costante di emigrazione e alla quale Francesco ha voluto offrire un concreto incoraggiamento a restare, sia per non assottigliare ulteriormente quella storica testimonianza di fede, sia per renderla corresponsabile del cammino di ricostruzione dell’Iraq di domani.

Ma c’era un secondo segno di risurrezione che il Papa ha voluto donare all’Iraq e al mondo intero. E si tratta del forte appello alla fraternità che trova nell’enciclica “Fratelli tutti” il suo documento ispiratore. Un appello per niente teorico, dal momento che se un futuro ci sarà in quel martoriato Paese, questo dipenderà dalla capacità delle diverse etnie ed appartenenze religiose di riconoscersi membri di una stessa grande famiglia. In Iraq coabitano etnie diverse (ad es. la araba e la curda), religioni diverse (cristiani, musulmani e yazidi) divise al loro interno in confessioni spesso in conflitto (sciiti e sunniti nel mondo islamico; caldei, latini, armeni, siro-cattolici nel mondo cristiano). In questa cornice si colloca l’incontro tra Papa Francesco e la massima autorità sciita irachena, l’Ayatollah al-Sistani, organizzato per favorire un riconoscimento reciproco tra cristiani e musulmani, la scoperta di una vocazione comune nella costruzione di un Iraq pacificato e capace di arricchirsi del contributo di mondi storicamente in conflitto.

Certo, a noi occidentali la complessità di quei territori spaventa e disorienta. Ma il messaggio che da questo viaggio deriva ci spinge ad un duplice impegno. Anzitutto quello della conoscenza e dello sforzo verso una informazione il più corretta possibile. Il secondo, quello della ricerca insonne di un terreno comune sulla base del quale riconoscere i criteri per poter perseguire progetti comuni, malgrado le differenze che ci caratterizzano. Un duplice impegno che vale per meglio comprendere il mondo nel quale per qualche giorno Papa Francesco si è voluto immergere, ma anche per dare sostanza al nostro modo di vivere una autentica risurrezione negli ambiti di vita che quotidianamente ci è dato abitare.

Don Roberto Davanzo

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